Sulla prefazione a «Fare progetti»
Riflessioni sul teso introduttivo di G. Anceschi al volume di Carlo Branzaglia
Commenti alla prefazione, intitolata «Il design e la progettazione», di Giovanni Anceschi, al volume di Carlo Branzaglia, Fare progetti. Una ipotesi di metodologia per tutti, Fausto Lupetti Editore, 2018.
Configurare e rinconfigurare
Anceschi ci parla del design in modo metariflessivo. Non parla di teorie e processi, non parla di pratica soltanto. Parla contemporaneamente di fare design, progettare partecipativamente, spiegare e insegnare il design ridefinendolo al contempo.
C’è un’affermazione di Anceschi, composta di due parti, che ha attirato subito la mia attenzione. La prima parte recita: «Il design è una procedura compiuta […]». Mi sembra che Anceschi voglia sottolineare qui che il design porta a un risultato, a un artefatto, a una configurazione concreta. Non si tratta solo di un esercizio teorico, bensì di una pratica che si conclude in qualcosa di fatto. Ma non basta.
Nella seconda parte dell’affermazione Anceschi precisa: «ma al tempo stesso sempre propedeutica alla costruzione della propria stessa struttura disciplinare». In questo modo il maestro ci spiega che ogni progetto non è solo un risultato «per l’esterno», per un utente un cliente un mercato in generale, ma contribuisce anche a definire cos’è il design come disciplina. Cioè: il design non ha una struttura data una volta per tutte, ma si costruisce continuamente mentre i designer progettano.
Subito dopo Anceschi continua dicendo: «Incarna un momento pedagogico che parte da saperi saputi ma che li riconfigura durante la sua stessa azione». Ecco che qui entra in gioco in aggiunta la dimensione formativa. Ogni atto di design è un «momento pedagogico». Prende i saperi esistenti, le conoscenze date stabilite codificate, e li trasforma in conoscenze vive, in trasformazione, durante il processo progettuale. In altre parole: progettare è sempre anche imparare e reimpostare le conoscenze.
Questa riflessione di Anceschi descrive in poche parole ciò che cerco di fare quando progetto un syllabus, una lezione, un’esercitazione, un compito autentico, e allo stesso tempo questa affermazione tempo spiega anche come questa continua riprogettazione e ridefinizione si applichi anche all’esecuzione della lezione stessa.
Durante la lezione oltre ad essere docenti, siamo anche teatranti che tastando il polso del pubblico cercano di affascinarlo, informarlo, intrattenerlo, educarlo. E poi siamo anche jazzisti che si adattano a una molteplicità di suoni della classe che si fa orchestra. Direttori ma anche musicisti in prima linea. E poi ancora siamo desinger nel pieno svolgimento del loro lavoro pratico, come dei capi cantiere col caschetto in testa durante un restauro di una vecchia e bellissima villa che si va man mano rinnovando. Ci adattiamo di continuo e adattiamo il nostro modo di parlare. Adattiamo anche la lezione che stiamo tenendo, il ritmo, il tono, le pause. Adattiamo anche i contenuti, mettiamo e togliamo qualcosa come abili chef che preparano piatti à la carte per una platea tutta diversa di venticinque persone.
Quello che descrive Anceschi è proprio quello che io considero il mio personale modo di insegnare. Nel mondo anglosassone lo chiamano Instructional Design, noi lo chiamiamo progettazione didattica. Chiamiamola come vogliamo questa pratica, questo lavoro, sta di fatto che è design, e infatti si tratta di proprio processo di «configurazione» e di riconfigurazione continuamente.
Design: scrittura e messa in scena
In me architettura, design e progettazione si intrecciano con la didattica: il cortocircuito più fecondo nasce quando insegnare diventa anche documentare e scrivere, come ricordava Zavalloni, perché il vero maestro è colui che sa progettare, educare e al tempo stesso restituire con le parole ciò che accade in aula.
Proviamo allora a instaurare un parallelo con la letteratura italiana, per cercare di capire meglio il concetto affrontano fino ad ora. Pensate per un attimo ad un grande scrittore come Pirandello. Lungi da me paragonarmi alla genitalità del premio nobel per la letteratura nel 1934. Provate a pensare al processo di stesura e poi di strutturazione di una delle sue opere. Immaginatelo alla scrivania, gli è appena venuta l’idea per un nuovo soggetto. La prima settimana mette insieme gli appunti scritti negli ultimi mesi. Poi la seconda settimana abbozza una novella. Poi nell’arco di qualche settimana la rifinisce e la pubblica. Nasce forse così «La patente», pubblicata per la prima volta 1911.
Ora immaginatelo di nuovo alla scrivania qualche un paio di anni più tardi mentre riprende in mano quello scritto e ci aggiunge riflessioni e altre idee che gli sono venute in mente nel frattempo. Passano altri due anni e quel soggetto nella sua testa è maturato, il personaggio è diventato ancora più complesso, ricco di sfaccettatura, ora ha una voce propria e vuole dire qualcosa di più. Così Luigi si rimette alla scrivania, scioglie lo spago che lega il faldone, tira fuori la novella con tutti gli appunti, le note, le idee, qualche pezzo di carta su cui ha scarabocchiato qualche dettaglio nel corso dei quattro anni dalla prima pubblicazione e si rimette a scrivere. Stavolta però il personaggio se lo vede come parato davanti a sé, come davanti alla scrivania del giudice D’Andrea, mentre perentoriamente dice con voce grave: «La patente!». E da lì riprende il filo per dar vita ad un atto unico.
La stessa cosa è accaduta per Pirandello con le novelle La giara, Pensaci, Giacomino!, La morte addosso, divenute pièce teatrali, ma anche con romanzo «Il fu Mattia Pascal» i cui spunti sono confluiti vent’anni dopo in drammi sull’identità come Come tu mi vuoi e Enrico IV.
Il processo di trasformazione di un plico di appunti in una novella e poi in un pezzo teatrale ricalca molto da vicino le necessità che ogni docente, progettista didattico, ha tra le mani quando da una prima idea di lezione, dopo averla davvero svolta, si ritrova a trascriverne i fatti salienti, le parole degli studenti, e poi di seguito a riprogettarla per un’altra occasione e reinterpretarla nella chiave giusta. Ogni volta che si progetta, si configura, poi si documenta e si riconfigura, si fa design. Ecco dove Anceschi è illuminante.
Rileggiamolo: «Il design è una procedura compiuta, ma al tempo stesso sempre propedeutica alla costruzione della propria stessa struttura disciplinare, Incarna un momento pedagogico che parte da saperi saputi ma che li riconfigura durante la sua stessa azione».
Questa frase rappresenta la segnatura pedagogica del fare progettazione, del pensare in termini progettuali quando si insegna, dell’insegnare materie tecniche come il design, l’architettura, la grafica, la modellistica, la confezione di un abito, la cucina, l’allestimento di un punto vendita o di una mostra.
L’intreccio delle lezioni
A me piace ad esempio palesare durante le lezioni, anche il processo di progettazione che ha portato alla loro realizzazione, alla loro configurazione così come le vedono i ragazzi riflesse nelle slide e nelle esercitazioni. Questa modalità, questa tecnica e pratica, è come far camminare i ragazzi all’interno di una meravigliosa cattedrale della quale con degli occhiali a raggi X essi sono in grado anche di vedere le strutture interne ai muri, coglierne i segreti di costruzione da dentro e da fuori.
Potremmo affermare in conclusione, che insegnare design significa mostrare il progetto e insieme il progettare. Ogni attività didattica nel design non si limita a proporre esercizi o contenuti compiuti, ma rende visibile anche il processo che li ha generati. In questo modo lo studente non apprende soltanto una tecnica o un risultato, ma comprende come i saperi vengano continuamente rielaborati, riconfigurati e trasformati in nuove forme. La lezione diventa così un doppio spazio di apprendimento: da un lato l’esercizio pratico, dall’altro l’esperienza diretta di come il design costruisce se stesso mentre si insegna e si pratica.
Eidomatica
Eidomatica io non l’avevo mai sentito. Giovanni Anceschi mi rivela questo termine, senza alcun riguardo per la mia ignoranza, d’improvviso, come la cosa più ovvia del mondo. E tutto d’un tratto, come mi aveva anticipato il mio maestro amico quando m’aveva invitato a leggere questo libro, la parola mi apre un mondo nuovo. Una parola nuova ogni giorno ha la capacità di aprirci davvero un mondo fino ad allora sconosciuto.
Eidomatica. Non è solo iconografia, che riguarda i contenuti, né solo semiotica visiva, che riguarda i segni, ma un approccio che tiene insieme forma, configurazione e processo percettivo. In questo senso, parlare di eidomatica significa rivendicare che il design ha bisogno di un sapere autonomo sulle immagini, un sapere non riducibile né alla storia dell’arte né alla semiotica pura, ma che si costruisce nel vivo della progettazione.
Ancora una volta, e con una sola parola, Anceschi getta le basi di una colonna portante della segnatura pedagogica del design.
Mi riserbo di approfondire ancora, in futuro, la figura di Giovanni Anceschi. La prefazione mi ha già messo l’acquolina in bocca.