Una lezione andata storta e le idee che si sono rimesse in cammino
Di come un’ora in classe mi ha insegnato più di un manuale sulla vendita

«Riesco a insegnare solo se riesco a imparare dalle persone che ho davanti»
— Enrico Galiano
Scompiglio d’ingresso
Varco il portone convinto di portare «il mondo reale» in aula. Ne esco, tre ore più tardi, convinto dell’opposto: ero io ad aver bisogno di quelle ragazze e quei ragazzi per capire cosa significhi davvero insegnare vendita oggi, qui.
Lo choc emotivo è nitido: smarrimento, desiderio di fuggire, un grido in gola. Poi, complice qualche capello bianco, la ragione prende fiato e mi impone cinque domande.
Cinque domande per rimettersi in rotta
Cosa ha acceso l’attenzione dei ragazzi?
Cosa non ha funzionato per niente?
Cosa si può migliorare e come?
Cosa conviene lasciar cadere?
Cosa dovremmo tentare, insieme, la prossima volta?
Senza provare a rispondere a queste cinque domande la mia mente sarebbe rimasta impantanata in un campo di mais dopo un acquazzone.
Tre maestri, tre fari
La ragione riporta a galla le migliori pratiche dei grandi maestri del Movimento di Cooperazione Educativa, pilastri di un agire concreto. Lo sgomento così si dissolve alla luce delle domande e delle pratiche: partire dal mondo dei ragazzi (Ciari); cominciare dai ragazzi (Lodi); far emergere il curricolo (Lorenzoni). Idee potenti, ma nella formazione professionale hanno senso solo se diventano un lavoro di squadra, non basta un eccellente insegnante solitario.
Quel pomeriggio mi rendo conto che insegnare, come progettare, è un’arte collegiale. Non ci sono compromessi. La consapevolezza dell’agire educativo lo impone. Serve il contributo di docenti, educatori, tutor aziendali, professionisti e degli stessi studenti. Bisogna progettare insieme. Come dice il famoso aneddoto: «Se io ho una mela e tu hai una mela e ce la scambiamo… Ma se io ho un’idea e tu hai un’idea e ce la scambiamo…». Quando manca il coro le idee restano al livello di parole al vento.
Il ping-pong dell’architettura didattica
Renzo Piano chiama «ping-pong» quello scambio d’idee che, rimbalzando, cambiano forma e si arricchiscono. Nella progettazione didattica vale lo stesso: schizzi, bozze, dialogo, revisioni, confronto continuo. L’errore non è un inciampo, è materiale di costruzione. Un edificio statico cade; una lezione statica annoia.
Tante idee, soprattutto se sono buone […] scompaiono ma poi riappaiono e questo è un elemento importante soprattutto per chi, come voi, affronterà nei prossimi anni un percorso da progettisti. […] L’architettura è un mestiere in cui le idee vengono collegialmente non c’è niente da fare.
— Renzo Piano, in Lezioni di Piano
Uno zaino e nove mestieri
Ecco come si è svolta la prima attività della lezione. Entro in classe con uno zaino gonfio. La classe sa solo che l’ospite è un esperto di vendite e nient’altro.
L’attività ha dunque inizio con l’esposizione delle regole del gioco. Propongo una sfida in stile «I soliti ignoti», come la trasmissione TV. Lo scopo è indovinare quali esperienze lavorative presentate ha vissuto veramente l’ospite tra le nove proposte e mostrate col proiettore, formulando ipotesi, facendo domande, prendendo spunto dagli oggetti contenuti nello zaino e osservando con attenzione il suo modo di rispondere. Punto di partenza è la mia età, il mio nome e il fatto che adesso lavoro in una scuola.
«Scoprite che lavori ho fatto e quali passioni coltivo. Osservate gli oggetti. Potete pormi una domanda ciascuno.», annuncio. Gli occhi si accendono. Le ragazze propongono dividersi in due squadre, maschi contro femmine. Accetto e metto in palio come premio per il vincitore un bel pacchetto di caramelle gommose Haribo. I ragazzi iniziano per primi e si mettono al lavoro svuotando tutto lo zaino da cima a fondo, mentre una rappresentante dell’altra squadra osserva: un libro, un blocco di appunti, del cordino, un’agenda, una spilla scuot, una patch col nome di una scuola, una piccola cassa audio portatile, una tessera punti della pizzeria, una maracas, un copri-zaino, un libretto dedicato al cielo, un righello (tipometro), una medaglietta Apple, un power-bank, penne, quaderni, post-it.
Le squadre rovistano negli oggetti, discutono, annotano. Le ipotesi fioccano: attore, docente in un C.F.P., «Cos’è un C.F.P.?» mi chiedono, campione di ballo liscio, «cos’è il ballo liscio?» mi chiedono, commesso, pasticcere, ecc.
Mi siedo sul bordo della cattedra e resto in silenzio aspettando delle domande. Solo il fruscio delle mani che rigirano gli oggetti e un chiacchiericcio allegro riempiono l’aula. Il mio volto, sopracciglia alte, labbra serrate, respiro lento, diventa un fermo‑immagine: un minuto, due, tre. Il tempo si dilata, e ogni secondo mi convince più di mille parole che la lezione sta succedendo ora, senza di me.
Quando 4 domande su 16 dicono tutto
Al termine dei tre minuti di tempo ambedue le squadre indovinano quattro mestieri su cinque grazie agli oggetti. Per indovinare l’ultimo mestiere servirebbero domande azzeccate e mirate. Su sedici studenti vengono formulate appena quattro domande. Il loro silenzio ha un gran peso: rivela che il muscolo delle domande è quasi atrofizzato.
La lezione è lampante: prima di parlare di customer journey dobbiamo allenare l’arte di chiedere. «Chi domanda, comanda.», no?
Questa è stata l’unica attività in cui i ragazzi si sono attivati. Le successive infatti sono state un fiasco quasi totale.
Passiamo dunque all’attività successiva progettata per stimolare domande e ascolto: «i quattro cantoni»:
la docente titolare legge l’argomento e poi propone 4 possibili scelte A, B, C, D;
ognuno raggiunge l’angolo, il cantone, A, B, C o D;
in ogni cantone si deve discutere in coppia il perché della scelta compiuta;
a fine gioco, chi se la sente, condivide in 40’ quello che hanno raccontato un compagno o due.
Questa attività si è rivelata un flop solo per metà.
Io non sono un professore. Non ho l’abitudine a insegnare. Però ho un sacco di esperienze.
— Renzo Piano, in Lezioni di Piano
L’ultima attività proposta alla classe avrebbe dovuto essere un role play di vendita, ma non ha mai avuto luogo. L’attenzione infatti era scemata, il coinvolgimento divenuto basso e ragazzi e ragazze erano altrove con la mente.
Per concludere la lezione dunque condivido con la classe un po’di vita vissuta, facciamo insieme qualche commento e ci salutiamo.
Non è stato un disastro ma non è andata per niente bene.
Il conteggio finale è impietoso: 16 studenti, 4 domande. Il muscolo dell’interrogare è quasi inerte.
Dal vuoto al Pop-up Store
Quel vuoto di domande e quel basso coinvolgimento sono diventati carburante creativo. Con il collega Giorgio Frizzera abbiamo condiviso la pessima esperienza, individuato le criticità e riflettuto sui possibili cambiamenti alla luce delle considerazioni fatte all’inizio di questo articolo.
Convinti che le attività debbano essere pratiche e reali, abbiamo progettato e pianificato un compito autentico di lunga durata: realizzare un Pop‑up Store.
Settimana 1
Fase: Kick-off & esperienza concreta
Attività principali: Ice-breaker “zaino di mestieri”. I ragazzi portano da casa un oggetto ciascuno oppure creano una piccola scatola/astuccio simbolico con oggetti che rappresentano mestieri legati al commercio, raccontandoli al gruppo; scelta del prodotto da lanciare (demo a cura del tutor aziendale).
Output: Coinvolgimento emotivo, brainstorming idee
Settimana 2–3
Fase: Osservazione riflessiva
Attività principali: Interviste sul campo, mystery shopping, analisi competitor (guidata dai ragazzi del quarto anno).
Output: Report di micro-ricerca di mercato
Settimana 4
Fase: Concettualizzazione
Attività principali: definizione di concept store, layout, pricing; piano social.
Output: Business canvas semplificato
Settimana 5–6
Fase: Sperimentazione attiva
Attività principali: Allestimento fisico del pop-up; simulazioni di vendita; campagna teaser sui social
Output: Pop-up pronto per il pubblico
Settimana 7
Fase: Apertura al pubblico per tre/cinque giorni
Attività principali: Gestione turni, vendita reale, raccolta feedback clienti
Output: Fatturato giornaliero, questionari
Settimana 8
Fase: Debriefing & valutazione
Attività principali: Retrospettiva strutturata (Kolb): che cosa è successo? Perché? Cosa migliorare?
Output: Diario di bordo, rubriche di valutazione, certificazione competenze.
Il progetto del Pop-up Store è diventato il nostro «ping-pong»: un cantiere aperto dove idee, errori e scoperte rimbalzano di continuo.
Perché un Pop‑up Store?
Concretezza: gli studenti vedono nascere, funzionare e chiudere un vero punto vendita in pochi giorni.
Visibilità: il progetto avviene in città, sotto gli occhi di clienti reali, partner e potenziali datori di lavoro.
Metriche: entrate, scontrino medio, feedback: numeri tangibili per misurare l’apprendimento.
Conclusione. Sbagliare insieme
Nel 2021, quando chiesi allo studente G.M., di cui ero tuto e docente, di tenere un diario di stage, creai per lui un template a misura. Funzionò perché era cucito addosso.
Ecco la stessa sfida, amplificata: costruire esperienze che calzino bene ai ragazzi che ci troviamo di fronte, partendo da loro e arrivando ai risultati di apprendimento attesi attraverso pratica, errori e compiti autentici.
Se vogliamo insegnare i fondamenti di un mestiere, domandare e ascoltare ne rappresentano due centrali nel settore vendite, dobbiamo iniziare a chiederci insieme come progettare le esperienze di insegnamento‑apprendimento.
E tu, lettrice o lettore, quando hai imparato di più sbagliando? Raccontacelo nei commenti: la prossima partita di ping-pong potrebbe iniziare da lì. Le risposte più interessanti saranno lette e commentate nel prossimo articolo.
👇 Raccontamelo qui sotto