Pietro Valenti: la moda sostenibile non basta
Domenica 5 ottobre 2025, presso l’associazione Andromeda di Trento, Pietro Valenti, fondatore di Pangea Fabrics, azienda che si occupa di consulenza, ricerca e sviluppo nel settore tessile, ha tenuto una conferenza dedicata a moda, sostenibilità e industria, dal titolo «Come si fa… a vestire la bellezza. Trame del futuro: bellezza, etica e sostenibilità nella “moda”».
L’associazione culturale «Studio d’Arte Andromeda» da tempo propone cicli di incontri domenicali nella cornice delle «Matinée all’aroma di caffè» le quali, a loro volta, rientrano nel più ampio quadro di incontri ed eventi che l’associazione ospita costantemente.
Il contributo di Pietro Valenti è parte del ciclo intitolato «Come si fa», nel quale professionisti di settore ed esperti, spesso molto noti, raccontano e aprono al pubblico il «contenitore segreto di molte attività di cui tutti godiamo ma di cui spesso sappiamo davvero poco».
L’associazione Studio d’Arte Andromeda ha presentato così l’evento:
Cosa c’è dietro un paio di jeans? Vestire la bellezza, spogliare il pianeta? Pietro Valenti, imprenditore e consulente tessile, lavora nell’industria da 35 anni. È stato prima in Italia, poi in india per 12 anni e ora principalmente in Asia, operando ovunque ci fossero telai, stamperie e tintorie. Si adopera da anni per trovare vie sostenibili alla produzione e al consumo di capi di abbigliamento.
Davanti a un pubblico attento, Valenti ha intrecciato la propria esperienza personale con un’analisi lucida del sistema produttivo globale, mostrando quanto la sostenibilità, pur necessaria, non sia di per sé sufficiente a cambiare il modello economico della moda.
Ringraziamo l’associazione culturale Studio d’Arte Andromeda per aver scelto un tema così importante per le nostre vite ed avergli dato spazio e risonanza. Ringraziamo il sig. Pietro Valenti per averci concesso di registrare il suo prezioso contributo. Presentiamo al lettore de lascuolaimmaginata.it un sunto della conferenza corredato dalle slide che lo stesso autore ci ha condiviso. Per chi ha il piacere di ascoltare l’audio originale dell’evento, questo articolo è corredato da una speciale puntata podcast.

Dall’intelligenza artificiale ai «panni sporchi» dell’industria tessile
La storia professionale di Valenti comincia lontano dal mondo dei tessuti: laureato in intelligenza artificiale nel 1988, si è presto ritrovato, per eredità familiare, nel settore tessile. Dopo aver diretto l’azienda di famiglia, nel 2004 ha fondato una nuova impresa che lo ha portato a lavorare in India per oltre un decennio, dove ha costruito e gestito uno stabilimento produttivo. Dal 2014 lavora come consulente internazionale, collaborando con industrie tessili in Asia e Africa.
Questa esperienza diretta sul campo gli consente di raccontare con precisione la complessità delle filiere globali, ben oltre le semplificazioni spesso diffuse nel dibattito pubblico sulla sostenibilità.
Che cosa significa davvero «sostenibile»
Richiamando uno studio della società di consulenza McKinsey, Valenti ha ricordato che un’attività non è sostenibile se:
consuma risorse naturali che non possono essere rigenerate;
produce effetti collaterali dannosi, come inquinamento o scarti non gestiti;
realizza prodotti difficili o impossibili da riciclare.
Tre condizioni che, applicate all’industria dell’abbigliamento, delineano un quadro problematico: consumi d’acqua enormi, emissioni di gas serra, processi di tintura e finissaggio energivori, difficoltà di tracciabilità delle materie prime.
Il ciclo di vita di un paio di jeans
Per rendere tangibili questi concetti, Valenti ha scelto un oggetto simbolico: un paio di jeans. Secondo un’analisi condotta da Levi’s nel 2017, il ciclo di vita di un solo jeans richiede in media 3.800 litri d’acqua e produce 33,5 kg di CO₂.
Circa il 67% del consumo d’acqua deriva dalla coltivazione del cotone, e oltre un terzo delle emissioni complessive proviene dai lavaggi domestici.
Questi numeri, osserva Valenti, non devono essere letti come una condanna morale ma come una fotografia dell’intero sistema: dalla produzione agricola alla filiera industriale, fino ai gesti quotidiani dei consumatori.
Energia, emissioni e differenze geografiche
La conferenza ha poi toccato un punto spesso trascurato: le differenze di impatto energetico tra Paesi.
Un kilowattora prodotto in India, ha spiegato Valenti, emette in media 320 grammi di CO₂, contro i 297 della Spagna e i 404 dell’Italia. La Francia, grazie al nucleare, scende quasi a zero.
Nella sua ex fabbrica in India, l’uso di biomassa (pula di riso) al posto della lignite ha permesso di ridurre drasticamente le emissioni, dimostrando che la sostenibilità non è solo una questione di principi ma anche di scelte tecnologiche e di contesto.
Il vero nodo: la tracciabilità e la quantità
Oltre all’impatto ambientale, il nodo cruciale resta la tracciabilità.
Nella filiera tessile, raramente chi tinge un tessuto sa da dove proviene il cotone. Lo stesso vale per i grandi marchi o i rivenditori. Questo deficit di trasparenza apre la strada al greenwashing, ovvero alla comunicazione selettiva che omette le parti scomode di un processo produttivo.
Ma per Valenti il problema più grande non è la qualità, bensì la quantità: nel 2017 l’Unione Europea ha importato 510 milioni di paia di jeans, più o meno uno per abitante. “La vera insostenibilità,” osserva, “sta nella scala dei consumi, non solo nei materiali.”
Shakespeare contro Zara
Riprendendo una citazione dal Re Lear, Valenti ha ricordato che anche i più poveri hanno qualcosa di superfluo, e che la vita umana non può ridursi ai soli bisogni primari.
Tuttavia, la fast fashion ha spinto questo “superfluo” fino all’eccesso, trasformando il desiderio in abitudine. Con la logica del prezzo basso e del ricambio continuo, marchi come Zara o H&M alimentano un modello in cui la durata del prodotto non ha più valore.
“Non è più figo fumare,” ha commentato Valenti, “e dovremmo arrivare a dire che non è più figo cambiare pantaloni ogni due settimane.”
Dalla seconda mano alle discariche del mondo
Il viaggio del jeans non finisce nell’armadio. Solo il 20% dei capi raccolti per beneficenza trova una seconda vita; il resto finisce negli inceneritori o nelle discariche del Sud del mondo.
Valenti ha mostrato immagini impressionanti dei mucchi di abiti usati ad Kenya e in Ghana, e delle montagne di vestiti abbandonati nel deserto di Atacama in Cile: simboli di una circolarità ancora fallita.
La riciclabilità, ha ricordato, non è solo una questione tecnica ma di progetto: oggi è più facile riciclare un capo in poliestere che uno in cotone, e l’idea di “biodegradabile” applicata ai tessuti naturali è spesso un’illusione.
Tre motori per la ruota della sostenibilità
Nella parte conclusiva, Valenti ha invitato a non cedere al fatalismo.
Crisi ambientali come il buco dell’ozono o le piogge acide sono state superate grazie a un’azione congiunta di innovazione tecnologica, legislazione efficace e consapevolezza dei cittadini.
La sostenibilità, ha detto, “è una ruota che ha almeno tre motori: se uno si ferma, la ruota non gira”.
Oggi, però, la ruota si muove lentamente: le tecnologie esistono, ma mancano norme coerenti e un consumo realmente informato.
Oltre l’etichetta
Dal prossimo ottobre in Francia ogni capo d’abbigliamento dovrà riportare un punteggio ambientale calcolato dal Ministero della Transizione Ecologica: un primo tentativo di rendere visibile l’impatto di ogni prodotto.
L’Unione Europea seguirà con il progetto PEF – Product Environmental Footprint, ma la sfida, sottolinea Valenti, resta la trasparenza delle filiere globali.
“Abbiamo gli strumenti,” conclude, “ma la sostenibilità non funziona se resta solo un’etichetta. Serve un equilibrio tra tecnologia, regole e cultura del consumo. Finché compreremo per abitudine, la moda continuerà a non essere sostenibile.”