Periplo, ottobre 2025, n. 4
La passione tinge dei propri colori tutto ciò che tocca

Le tappe di questo Periplo
Introduzione al numero
Un invito a leggere come si viaggia.Editoriale — Le porte degli insegnamenti
Tra scuola e Dharma, la porta dell’educazione viva.
A partire dal gesto quotidiano di “aprire la porta della scuola”, si riflette sulle molte porte dell’insegnamento: quelle materiali e quelle interiori, fino alle “porte del Dharma” come vie della consapevolezza e del prendersi cura.Per chi vogliamo vivere
Lettera aperta
Una lettera a Nicolò Govoni di Still I Rise. La scuola come casa, la fiducia come fondamento e la vita come scelta di dedizione e cambiamento.Il cestino delle cose essenziali
Contro il consumismo del sapere.
Una riflessione sull’essenzialità nella formazione.Behind Creativity di Piercarlo Tozzi
Appunti dal mondo del design e della creatività applicata.
Dalle interviste raccolte da Tozzi emergono pratiche e visioni sul pensare progettuale: dal “What if” di Landor Italia alla capacità di aprire scenari e spostare prospettive.Pastiglie Leone — La Dolce Vita
Il rebranding come racconto di sensi e memoria.
Un caso di design premiato per la capacità di rinnovare l’identità di un marchio storico italiano, unendo tradizione e immaginazione visiva.Diario di bordo, 20 ottobre ’25 – «Vita futura»
Appunti di un cambio di vita.
Una pagina di diario sul cambiamento e sulla ricerca di senso, ispirata dalle parole di Giorgia Surina e Ugo Bressanello e dal progetto “Vita Futura”.«Signorina una domanda: ma le stelle di giorno dove vanno?»
La meraviglia come origine della conoscenza.
Una domanda autentica diventa pretesto per riflettere sul valore pedagogico dello stupore e sull’educazione allo sguardo, con un richiamo a Franco Lorenzoni e al suo Con il cielo negli occhi.Le scoperte sul web di questo mese
Introduzione al numero
Cari lettori e care lettrici,
ogni mese Periplo è un piccolo viaggio. Questo chiaramente non è un giornale né una rivista, non è un volume di saggistica o un racconto a puntate, ma forse è qualcosa di simile a tutte queste tipologie di prodotti librari e paralibrari, qualcosa a metà strada.
Potrebbe somigliare a un bookzine, un libro che si legge come una rivista, o una rivista che si sfoglia come un libro breve. Ogni Periplo infatti è costituito di capitoli brevi, appunti di viaggio, pagine di diario, scoperte provenienti dal web o dai libri, riflessioni, persone incontrate e testimonianze.
A volte un paragrafo può essere più narrativo, a volte più saggistico o pedagogico; altre volte nasce semplicemente da una conversazione, da una lettura o da un luogo attraversato. Non tutto vi piacerà allo stesso modo ed è giusto così. Periplo è pensato proprio per essere letto come un itinerario libero: saltate pure i tratti, le tappe, che non vi parlano, seguite quelli che vi incuriosiscono di più.
Se leggete dal sito sulla sinistra trovate un barra laterale; potete usarla per orientarvi e passare da un paragrafo all’altro, proprio come su una mappa di viaggio.
Ogni mese, questo percorso si costruisce un passo alla volta, tra ciò che ho letto, ascoltato, visto, o semplicemente pensato.
Benvenuti dunque nel Periplo di questo mese: fate come in ogni buon viaggio, portate con voi curiosità e tempo. Il resto verrà da sé.
Editoriale — Le porte degli insegnamenti
«Celui qui ouvre une porte d’école, ferme une prison.»
(Chi apre la porta di una scuola, chiude una prigione)
— Victor Hugo
Sono tre anni che al mattino, ogni mattino dal lunedì al venerdì, apro la porta della scuola. Aprire una porta non è soltanto spingere una maniglia o spostare un interruttore, ma è anche dire «Buongiorno!» a tutte le ragazze e i ragazzi che varcano quella soglia al mattino. C’è chi ha fatto colazione e chi no. C’è chi si è alzato da solo e si è preparato in solitudine, e chi è stato svegliato ed ha trovato una colazione. C’è chi si è alzato alle 5:00 del mattino e chi si è svegliato alle 7:00. Per tutte e per tutti è importante un bel «Buongiorno!». Il buongiorno migliora l’umore e la resa.
⁂
Ogni progetto educativo globale, completo, dovrebbe comprendere diverse aree di intervento, proprio come le prevede ad esempio il PEG del CNGEI, l’associazione scout laica italiana:
L’impegno civile
La corporeità
La creatività
Il carattere
La dimensione spirituale
Nella scuola, come in qualsiasi altra forma di educazione formale, a queste aree si aggiunge quella culturale, per ovvi motivi.
Oggi in particolare, riprendendo il filo del discorso, vorrei parlare delle «porte dell’insegnamento», le «porte del dharma» come le definisce la filosofia orientale ed affrontare dunque l’area della spiritualità, a me molto cara. Non parleremo dunque né di porte di legno, né useremo la metafora della porta per parlare di apertura o di chiusura, preclusione o reclusione, o di altri sensi figurati del termine.
Che cos’è una porta del Dharma
Nel linguaggio orientale, una porta del Dharma (in sanscrito dharmamukha, in cinese 法門 fǎmén) è un accesso all’insegnamento, un varco attraverso cui si può entrare nella comprensione della realtà così com’è. «Dharma» è, al tempo stesso, la legge universale, l’insegnamento, e la via che libera dalla sofferenza; «porta» è il simbolo del passaggio, della soglia, dell’esperienza diretta.
In altre parole, ogni pratica, parabola, meditazione o intuizione che conduca alla visione profonda (prajñā) può essere considerata una porta del Dharma. Il Buddha stesso ne ha aperte moltissime: le Quattro Nobili Verità, la consapevolezza del respiro, la meditazione sulla compassione, l’interdipendenza di tutti i fenomeni, e molto altro.
Aprire nuove porte del Dharma
Dopo il Buddha, i maestri, in India, Cina, Corea, Giappone, Tibet, Vietnam, Thailandia, Sri Lanka, Buthan, Ladakh e poi in Occidente, hanno continuato a reinterpretare e adattare l’insegnamento alle persone, ai tempi, ai linguaggi e alle culture.
Ogni volta che qualcuno riesce a trasmettere il senso profondo del Dharma in un modo nuovo, accessibile, vivente, possiamo dire che ha «aperto una nuova porta del Dharma».
Per esempio:
Bodhidharma, portando il buddhismo in Cina, aprì la «porta dello Zen» (o del Chan), che poneva l’accento sull’esperienza diretta oltre le parole.
Dōgen, in Giappone, aprì la porta della «pratica-realizzazione»: l’idea che meditare non sia un mezzo ma il risveglio stesso.
Thich Nhat Hanh, nel nostro tempo, ha aperto la porta della «consapevolezza impegnata», unendo meditazione e vita quotidiana, pace interiore e azione sociale.
In ognuno di questi casi, l’insegnamento è lo stesso, ma il varco cambia: è come se il Buddha parlasse di nuovo, con la voce di un’epoca differente.
Una porta del Dharma non si costruisce come un edificio: si apre come un cuore. Si apre quando un praticante o un maestro:
comprende un aspetto del Dharma in modo autentico, personale;
riesce a esprimerlo in una forma che gli altri possono attraversare (una pratica, un gesto, un racconto, un modo di insegnare, persino un modo di vivere);
e, soprattutto, quando quel varco riduce la sofferenza e genera comprensione.
⁂
Non sono solo i grandi maestri dunque, a poter aprire nuove porte del Dharma: ogni persona, nel momento in cui comprende davvero e agisce con compassione, apre una piccola porta.
Una madre che insegna la pazienza a un figlio, un insegnante che aiuta un allievo a vedere la propria bellezza interiore, un medico che ascolta con attenzione, ognuno di loro, in quell’attimo, rende visibile un accesso al Dharma.
In questo senso, le «porte del Dharma» sono i molteplici modi in cui la realtà assoluta delle cose può essere compresa.
C’è chi entra attraverso la meditazione, chi attraverso la compassione, chi attraverso la recitazione, chi attraverso l’arte o il lavoro manuale: ognuna di queste vie è una porta che conduce al risveglio.
In un discorso a Plum Village, il maestro Thích Nhất Hạnh disse:
«Ogni generazione deve trovare nuove porte del Dharma, perché la sofferenza cambia forma. Ma la chiave è sempre la stessa: la presenza mentale e la compassione.»
Così, il Dharma rimane fedele a se stesso proprio perché non rimane uguale: si rinnova nell’incontro con il presente. Un po’ come dire che la stessa luna si riflette in ogni pozzanghera diversa, senza mai perdersi.
Un filo pedagogico: aprire nuove porte dell’educazione, dell’insegnamento / apprendimento
Se guardiamo questa immagine con occhi educativi, e credo che vi verrà naturale, aprire nuove porte del Dharma è l’equivalente spirituale dell’educare in modo vivo.
Un maestro non trasmette formule, ma crea condizioni perché altri possano «entrare» nelle verità, ciascuno a modo suo. Ogni studente, ogni figlio, ogni persona, ha bisogno della sua porta. L’educatore, come il maestro zen, non costruisce muri, ma apre soglie.
Quando Thích Nhất Hạnh parlava ai praticanti laici, diceva sempre:
«Portate le vostre porte del Dharma nel mondo.»
Cioè, non limitatevi a praticare quelle che già conoscete, ma inventatene di nuove, adatte alla vostra vita.
Un’insegnante, per esempio, può aprire la porta della consapevolezza nella classe:
il silenzio prima di iniziare la lezione;
il respiro condiviso dopo una discussione accesa.
Un genitore può aprire la porta del Dharma preparando la colazione con attenzione e gentilezza, senza fretta. Un artista può aprirla nel gesto creativo, un artigiano nella cura del dettaglio.
Un bravo insegnante non spinge gli studenti dentro a forza, ma sa trovare la porta giusta per ciascuno.
Sa che non esistono solo le vie ufficiali del programma, ma anche quelle più sottili, un gesto, una domanda, una pausa, una parola detta con presenza. Ci sono mille modi per rappresentare le cose che vogliamo insegnare e apprendere, mille diversi mezzi di azione ed espressione di ciò che insegniamo, e molti diversi mezzi ancora di impegno.
Come il Buddha offriva 84.000 porte, così ogni educatore dovrebbe poter offrire «molteplici ingressi» alla conoscenza: la via sensoriale, quella artistica, quella razionale, quella relazionale, quella del corpo e quella dell’immaginazione.
Ce lo ricorda anche, richiamando queste stesse pratiche, il contemporaneo «Universal Design for Learning, ovvero la Progettazione Universale per l’Apprendimento».
Ce lo ricorda anche Lorenzoni quando ci suggerisce di «sostare», esattamente come nella Via di Mezzo si insegna il Śamatha, ovvero di smettere di correre e affrettarsi dietro al programma o ai punti del curricolo. Ricordiamoci anche che σχολή (scholè) in greco, anche un po’ sorprendentemente, significa ozio, riposo.
Solo se abbiamo la capacità di sostare a lungo attorno a un contenuto culturale, dandoci il tempo di moltiplicare le domande, possiamo scavare e scoprire i tanti particolari e dettagli che si nascondono in un testo, in una pittura o in un teorema. In quello scavo, se lo compiamo in gruppo in una classe abituata all’ascolto reciproco, abbiamo la possibilità di scoprire, al tempo stesso, peculiarità e caratteri di ciascuno di noi. Ecco allora che l’oggetto culturale ha la possibilità di mostrarsi con un grado maggiore di verità perché illuminato da tante diverse interpretazioni personali, che poco a poco potranno emergere confrontando i nostri pensieri.
— Parigi, L., Lorenzoni, F. (a cura di), Il dialogo euristico. Orientamenti operativi per una pedagogia dell’ascolto nella scuola, Carocci editore, Roma, 2019
Ce insegnava anche il compianto Mario Lodi. Fuori dalla scuole piove? Allora non cerchiamo di spiegare il ciclo dell’acqua con un bel disegno alla lavagna ma andiamo alle finestre dell’aula, oppure usciamo sotto la pioggia ben coperti. Tanto i bambini se fuori diluvia saranno comunque attratti dalla forza dell’acquazzone.
In fondo, potremmo dire che una scuola viva è un monastero di porte aperte. E aprire nuove porte del sapere significa inventare pratiche educative che parlino al tempo presente. Può voler dire introdurre la lentezza nel ritmo scolastico, l’ascolto profondo nei colloqui, la riflessione silenziosa come parte della lezione. Può voler dire spostare il centro dall’informazione alla relazione, dal controllo alla cura, dall’ansia di produrre al piacere di comprendere. Ogni volta che un insegnante trova un modo per rendere il sapere abitabile, per far sì che lo studente possa dire «ora capisco», ha aperto una porta dell’insegnamento.
Vi racconto un episodio recente. Un collega insegnante arriva in aula al mattino ma le apparecchiature informatiche non si accendono. Vengo chiamato da uno studente per capire cosa non va. Mi reco in aula e trovo tutti gli studenti compostamente seduti. Il docente mi spiega che gli interruttori dell’elettricità sono abbassati e che non si riesce a rialzarli per riagganciare la corrente e ciò comporta che né la LIM né il PC della cattedra funziono. Io chiedo: «E i ragazzi cosa hanno suggerito?». Il docente mi spiega che alcuni ragazzi hanno detto che di solito è sufficiente rialzare gli interruttori, qualcun altro poi dice che c’è il pulsante di sgancio che serve a staccare la corrente, e un’altro sostiene che che forse forse serve anche ad accendere.
Insomma gli studenti dicono tante cose. Ma qualcuno si fermaad ascoltarli? Ci rendiamo conto che sono venti teste pensanti con una loro vita e delle loro esperienze, e che sono in grado di intendere e di volere? Qualcuno li fa provare? Qualcuno comprende che anche queste situazioni, ovvero l’approccio alla sicurezza, la gestione dell’elettricità in un laboratorio e l’uso dei macchinari, sono momenti educativi in cui c’è apprendimento?
Insomma. I ragazzi avrebbero potuto tranquillamente risolvere la situazione insieme, e con l’insegnante. Ma si è ritenuto opportuno chiamare me perché «non c’è tempo (per chiacchierare e discute di queste cose)!»
In una scuola tutto ciò che accade è motivo di apprendimento. Tutto ciò che accade di reale e autentico è seme di l’apprendimento.
Conclusione: un muro dopo la porta.
Non concluderò questo editoriale aggiungendo altro a quanto detto, bensì riportando una curiosa scoperta che spero vi farà sorridere, e che fa cortocircuito col tema di questa apertura.
«Il muro dell’educazione» è una via.
Il muro dell’educazione si trova in Sabina, nel comune di Poggio Catino. Ma perché ha questo nome e chi glielo ha dato? Beh, il perché vi sorprenderà.
Quando un arrampicatore «apre» una nuova via, cioè è il primo a scalarla e a posizionare i chiodi, i fix, o a tracciarne il percorso, ha il diritto di battezzarla. Qui in Trentino ne abbiamo moltissime. Famose sono le falesia situate nei comuni di Arco e di Riva del Garda. Aprire una via è un po’ come scoprire un pianeta o scrivere una canzone: a chi la apre appartiene quel gesto creativo e il nome diventa parte della storia della via.
Le ragioni dietro al nome possono essere molteplici:
un gioco di parole, spesso ironico o surreale come Riso amaro, Via del buco;
un omaggio: a un amico, a un film, a una canzone, a un amore, a un maestro di roccia;
un ricordo personale: un’emozione provata durante l’apertura, una paura superata, un sogno vissuto su quella parete;
Un riferimento al luogo: al colore della roccia, al panorama, alla fauna, alla leggenda locale.
Ogni falesia, quindi, diventa una sorta di mappa di micro-narrazioni, un mosaico di esperienze umane inscritte nel paesaggio. «Il muro dell’educazione» è una di queste.
Per chi vogliamo vivere
Lettera a Nicolò Govoni
Questo testo nasce come lettera aperta a Nicolò Govoni, fondatore di Still I Rise. È un frammento di un dialogo ideale sull’educazione, la fiducia, la vita e il cambiamento.
Caro Nicolò,
fra qualche tempo aprirai la prima scuola IB gratuita d’Italia, pensata per le ragazze e i ragazzi più vulnerabili, e mi piacerebbe esserci.
Potrei anche stare al centralino o fare il bidello, purché possa far parte di una comunità dove educare significa servire, e possa stare in classe con le ragazze e i ragazzi del primo anno, dove tutto accade, magari un paio di ore alla settimana.
Mi ha colpito sapere che, quando hai fondato Still I Rise, eri poco più che un ragazzo, con un’idea semplice e potente: dare istruzione e dignità a chi non ne aveva accesso, ai più vulnerabili.
Dall’hotspot di Samos alle scuole di Nairobi e Bogotà, il vostro lavoro racconta che la speranza non è un sentimento, ma un metodo.
Holden raccontato da Frank Bettger — Hai mai sentito la storia di Louis Holden? Aveva trentasette anni quando la sua università andò a fuoco. Andò da Carnegie e, in quattro minuti, ottenne la promessa di centomila dollari per ricostruirla.
Non vendette un progetto, ma un’idea più grande di sé, arrivando al cuore del potente magnate. È così che cominciano le rinascite: quando qualcuno crede, prima ancora di vedere.
Cambiare vita, cambiare metodo — Anche io, da qualche tempo, sto attraversando un cambio di vita.
Dopo anni nella scuola classica e nel mondo frenetico del lavoro per obiettivi, sento il bisogno di passare ad altro: la relazione, la cura reciproca, l’imparare insieme.
Come scriveva Zavalloni, «i maestri veri sanno aiutare a far fiorire le intelligenze e le personalità delle ragazze e dei ragazzi, e poi riflettono sul loro lavoro educativo, documentandolo e condividendolo». A questo vorrei tornare: a imparare e a servire come un vero maestro.
La scuola come casa — Lodovico Pavoni, che fu il precursore di tutti i preti e le suore sociali dell’800 e che è uno dei miei progenitori spirituali, soleva dire che i ragazzi bisogna «amarli come la pupilla dei nostri occhi». Il Metodo Educativo SIR mi è familiare e come te anche io credo che l’educazione nasca da relazioni di fiducia, non da gerarchie.
C’è un messaggio di Jane Goodall, scomparsa il 1° ottobre 2025, che porto come bussola:
«Each and every one of you has a role to play.
Your life matters, and you are here for a reason.
Every single day you live, you make a difference in the world.
And you get to choose the difference that you make.»
Credo che la tua vita e il tuo lavoro siano la prova vivente di queste parole. E se dovessi scegliere un luogo dove continuare a imparare, sceglierei uno come il tuo: dove la parola “educazione” non è teoria, ma vita condivisa.
Con stima e gratitudine,
Luigi Giuliani
Trento, 26 ottobre 2025
Il cestino delle cose essenziali
Il consumismo dell’informazione, il consumismo della cultura, il consumismo del sapere: sono tutte manifestazioni della stessa logica consumistica.
Bisogna avere questo e quello, sapere di più, accumulare sempre di più: successo, conoscenze, titoli, esperienze. Ma non c’è un traguardo. È l’illusione di uno sviluppo infinito, un miraggio che ci sfugge non appena cerchiamo di afferrarlo.
Se proiettiamo questa idea nel tempo, cosa accadrà fra duemila anni, nel 4025? Avremo il doppio dei libri di storia, il doppio dei testi di letteratura, il doppio delle scoperte scientifiche. Dovremo insegnare tutto? Ricordare ogni fatto saliente? Conservare ogni traccia?
Non c’è fine, se continuiamo a ragionare così: in un’ottica capitalistica, positivista e consumistica, senza uno sguardo critico e senza buon senso.
A mio avviso, ciò che conta davvero nella formazione di base è saper scrivere nella propria lingua, padroneggiare l’inglese — oggi lingua internazionale — e saper far di conto. Accanto a queste competenze, c’è una dimensione altrettanto necessaria: coltivare la spiritualità, intesa come cura del benessere mentale e fisico, e comprensione profonda della realtà delle cose.
E allora la domanda è: cosa mettereste voi nel cestino delle cose essenziali?
Behind Creativity di Piercarlo Tozzi
«Stimolare le attività» — Dario Volpe, Lettera 7
Stimolare le abilità in tutti i sensi, sia attraverso la memoria muscolare che quella intellettiva, apportando valore aggiunto ad ogni progetto.
Dario Volpe (al 20’ 42”)
Questo le scuole di design già lo fanno ma poi, spesso, sul posto di lavoro tutto ciò va perso. Per fortuna ciò non accade da lettera7.design
«What if» — Mattia Castiglione, Landor Italia
In un passaggio davvero interessante e rivelatore del modo in cui un’agenzia come Landor lavora, Mattia Castiglione spiega a Piercarlo Tozzi una pratica regolare che l’agenzia mette sempre in atto nelle prime fase di ogni progetto, quando si trova a presentarlo al cliente. Stiamo parlando del «What if».
Quando Mattia Castiglione parla di «what if», si riferisce a ipotesi esplorative, scenari alternativi o provocazioni concettuali che l’agenzia propone al cliente nella fase iniziale di un progetto.
In inglese, what if significa letteralmente «e se…?» — è la domanda che apre possibilità, come:
«E se il brand non avesse un logo tradizionale?»
«E se il tono di voce fosse affidato al suono, non al colore?»
«E se il marchio si comportasse come una persona, invece che come un’istituzione?»
Sono quindi esercizi di immaginazione strategica, non destinati direttamente alla delivery (cioè al risultato finale consegnato), ma utili per spostare la percezione del cliente, portarlo fuori dalla zona di comfort e misurare la sua apertura mentale e il suo desiderio di innovazione.
Castiglione lo spiega bene nel passo che hai segnalato: questi what if
«non vanno a impattare sulla delivery del risultato finale, ma servono per misurare la temperatura […], per vedere il grado di fame, di attenzione, di possibilità del cliente».
In sostanza, il what if è uno strumento di design thinking applicato alla relazione con il cliente: una domanda ipotetica, ma calcolata, per comprendere dove si può osare e quanto spazio di sperimentazione c’è.
È una sorta di prototipo mentale o concettuale che apre il dialogo creativo prima ancora che inizi la progettazione concreta.
Pastiglie Leone — La Dolce Vita
Premio D&AD pencils per la categoria Packaging Design, 2024. L’agenzia Design Bridge and Partners London vince il prestigioso premio con la seguente motivazione:
Ridando nuova vita a un’icona nazionale, Leone è stato reinterpretato attraverso l’idea creativa guida dell’«evasione sensoriale». Catturando la fervida immaginazione di Leone dal 1857, il rebranding allude a tempi più semplici e felici, unendo magistralmente un portfolio complesso intriso di tradizione e nostalgia. Con lo stesso carattere seducente, Leone è diventato una delizia globale. Un mondo dolce e pieno di esplorazioni, Leone cerca di ispirare tutti i sensi con indulgenza e gioia incantevole. I dettagli artigianali, il design intrigante e idiosincratico delle confezioni invitano tutti a lasciarsi conquistare dal loro fascino senza tempo.
Un progetto di rebranding che attraverso il packaging ha cambiato e rinnovato lo storico marchio italiano, forse il più conosciuto marchio di pastiglie al mondo. Io adoro quelle alla violetta che mi offriva sempre la mia prof di francese alle medie.
Si tratta di un progetto, di una case history, degna di essere studiata dal punto di vista grafico, del colore, e della tipografia.
In una bella intervista al CEO di Leone, Massimo Pozzetti, viene raccontata questa storia e anche molto altro dell’azienda.
Diario di bordo, 20 ottobre ‘25 – «Vita futura»
«Quando ti senti perso, prenditi tempo, cammina, stacca dai rumori.
Se ascolti in profondità, il pensiero giusto è quasi sempre quello del cambiamento.»
Un prossimo cambio di vita
Il 20 settembre 2025, mentre cercavo ancora una volta la parola ikigai sul web e nei libri di Amazon, ho fatto una scoperta inattesa su YouTube.
Tra i risultati, oltre a ritrovare il mitico Mick Odelli, mi sono imbattuto in un canale che non conoscevo: «Vita futura». Il nome mi ha catturato subito.
Scrivo queste righe senza fretta: non sono un articolo, ma un tentativo di mettere ordine nei pensieri, come si fa in un diario.
Le parole di Giorgia Surina
Più cose oggi mi spingono a scrivere: l’imminente cambio di vita, il desiderio di dare forma alle idee che mi affollano la mente, i valori che mi spingono alla ricerca di una vita diversa e altra, le parole di Giorgia Surina e quelle di Ugo Bressanello.
E anche l’amore per ciò che faccio ora, unito alla voglia di fare qualcosa di significativo e rilevante da domani.
Stasera ho visto l’ultima intervista di Giorgia Surina a Ugo Bressanello, pubblicata su Vita Futura appena quattro giorni fa. All’inizio della puntata, la giornalista racconta il senso del suo lavoro:
«Noi in questo podcast vogliamo ispirare chi si trova in un momento di difficoltà, di smarrimento, e ha voglia, necessità e urgenza di cambiare la propria vita perché è scontento.
Per te è andata diversamente, perché in realtà non eri scontento del tuo lavoro.»
E più avanti aggiunge:
«Sta tornando spesso, nel momento del cambio vita, la necessità di prendere ispirazione, di seguire o avvicinarsi a qualcuno che ti possa aiutare a fare un traghettamento.»
Verso la fine, pone la domanda più importante:
«Se chi ci ascolta avesse un dubbio — cambio, non cambio, che faccio? — mollo tutta la vita che ho costruito finora?
Cosa diresti a chi si sente perso, che non capisce qual è il suo obiettivo nel mondo, e che ha perso l’orientamento rispetto al senso della propria vita?»
Le mie domande a me stesso
Tutte queste parole sono domande che, da anni, rivolgo a me stesso. Negli ultimi tre anni, si sono fatte più urgenti: Continuare a vivere così? Quello che faccio è significativo? È rilevante? Riesco a imparare qualcosa ogni giorno? Ho qualcuno da cui imparare? Qualcuno con cui crescere, migliorarmi, condividere? Riesco davvero ad aiutare gli altri? Sono felice? Come posso offrire gioia a chi amo, e come posso alleviare ogni giorno il dolore di chi amo?
Oggi, a molte di queste domande, o non ho modo di rispondere o riesco solo a rispondere «no». Tutto ciò vorrei cambiasse.
Ugo Bressanello e la sua “vita futura”
Ugo Bressanello, ex manager e pioniere di Internet (già manager di Tiscali, Virgilio e Tin.it), racconta come la sua “vita futura” sia nata da un anno sabbatico. Doveva essere solo una pausa per riflettere e restituire qualcosa alla comunità. È diventata una scelta di vita definitiva.
Trasferitosi in Sardegna con la moglie Petra e i tre figli, apre una casa per minori dopo la chiusura degli orfanotrofi in Italia. Nasce così Casa delle Stelle, primo nucleo della futura Fondazione Domus de Luna, rete di comunità, centri e imprese sociali dedicate a bambini, mamme in difficoltà, giovani e persone fragili.
Petra, architetta, si occupa degli spazi e dell’idea di accoglienza come architettura dell’anima; Ugo porta metodo e visione organizzativa. L’ispirazione arriva anche dall’incontro con don Mazzi e con la sua pedagogia dell’arte e della carovana. La loro filosofia: non fare assistenza, ma cambiare le cose, difendere diritti e costruire autonomia.
Nel tempo, Domus de Luna cresce: nascono comunità come Sa Domu Pitticca, progetti di prevenzione nelle periferie e nelle carceri come ExMé, laboratori artistici, e imprese sociali come i ristoranti Buoni e Cattivi, premiati da Gambero Rosso e Slow Food. Con il WWF gestiscono la riserva naturale di Monte Arcosu, unendo inclusione, tutela ambientale e formazione.È nata anche una «fattoria molto sociale» che produce i prodotti serviti nei ristoranti e distribuiti alle comunità.
Bressanello parla degli errori iniziali, come aver confuso il ruolo del padre con quello dell’educatore, e di come, grazie al professor Cancrini, abbia compreso che la cura passa anche dal coinvolgere i genitori e dal far emergere la consapevolezza dell’errore.
Riconosce l’importanza di imparare sbagliando, ma dentro una rete di buone guide: «nel mio caso, maestri e alleati». Nel 2023 riceve dal Presidente Sergio Mattarella l’onorificenza di Ufficiale al Merito della Repubblica Italiana per l’impegno sociale. Racconta l’emozione di quella telefonata e l’orgoglio di vedere una ragazza cresciuta in comunità premiata come “Alfiere della Repubblica”.
Con tono semplice e ironico mostra lo zaino che porta con sé da vent’anni, simbolo del suo cambiamento:
«Prima avevo la valigetta da manager, ora ho uno zaino pieno di sogni.»
«Signorina una domanda: ma le stelle di giorno dove vanno?»

«Signorina, posso farle una domanda per favore? Le vorrei chiedere: di giorno dove vanno le stelle?»
La domanda arrivò lieve e seria, come sanno esserlo solo le domande dei bambini e degli anziani: prive di fretta, disarmanti nella loro semplicità.
La mia collega, al tempo divulgatrice scientifica al MUSE, il Museo delle Scienze di Trento prima di insegnare scienze a scuola, se la porta ancora dietro, come un piccolo dono ricevuto inaspettatamente.
Perché quella domanda, in fondo, non riguarda soltanto l’astronomia. Riguarda il modo in cui guardiamo il cielo. Riguarda la meraviglia che, anche quando la scienza spiega, non si esaurisce. È un invito ad alzare lo sguardo e a domandarsi: che fine fanno le stelle quando non le vediamo più?
La risposta scientifica, in fondo, è semplice: le stelle non vanno da nessuna parte. Restano lì, immerse nel buio dello spazio, mentre la luce del Sole, più intensa e vicina, le rende invisibili ai nostri occhi. Ci sono, ma non le vediamo. Il cielo diurno non è vuoto: è pieno di stelle.
Ma quella signora anziana non stava soltanto chiedendo un’informazione astronomica: stava donando un’occasione. Le domande così, quelle che portano dentro lo stupore, sono semi di curricolo emergente: germogliano quando qualcuno le accoglie invece di archiviarle.
«Con il cielo negli occhi»
Lo ricorda spesso Franco Lorenzoni nei suoi libri: le domande autentiche non si insegnano, si ascoltano, si coltivano. Se non avete mai letto «Con il cielo negli occhi», Edizioni la meridiana 2019, dove assolutamente prenderlo in biblioteca.
il cielo è uno dei grandi territori dimenticati dall’uomo.ed anche la scuola lo dimentica, pur avendolo lì, gratuito, fuori dalle finestre ogni giorno sopra l’orizzonte.
la scuola è il luogo dove i bambini cominciano a condividere collettivamente spazi e tempi comuni, dove imparano a leggere e a scrivere. Perché non regalare loro questa prima lettura? Perché non invitarli a seguire fin da piccoli il cammino del Sole e le fasi della Luna?
Guardare e osservare il cielo insieme alle bambine ai bambini alle ragazze e ai ragazzi apre l’insegnamento e l’apprendimento alle zone d’ombra del conoscere e a quel possibile intreccio tra colori, matematica, poesia, astronomia, tradizioni e credenze millenarie.
Osservando il cielo si impara la lentezza, si impara a tenere fede agli orari e agli appuntamenti, altrimenti si perde, ad esempio, la possibilità di osservare un tramonto o un fenomeno celeste.
Lorenzoni nei sette capitoli del libro ci offre molti suggerimenti e collegamenti, che lui chiama intrecci:
L’orizzonte è la finestra da cui osserviamo l’universo
Possibili intrecci: Paesaggi, terre, acque, tracce e costruzioni umane
Il mito: Urano e Gea
Tempi e spazi di tramonti ogni giorno diversi
Possibili intrecci: Cibo, calendari, rituali, corpi danzanti e demoni
Il mito: Due fratelli e un grande fiume
Aspettando ogni notte la lunatica Luna
Possibili intrecci: Poesie, coltivazioni e vino. Teatro delle ombre, voli e influenze lunari
Il mito: L’ultimo volo della ninfa Callisto
Mani, misure, strumenti, sapori e saperi
Possibili intrecci: Libri, amici e luoghi della ricerca. La cooperazione educativa come possibilità e come ricchezza
Il mito: L’origine del giorno e della notte
Gira la Terra o ruotano le stelle?
Possibili intrecci: Silenzio, musica e canto, con l’aiuto del mare e del vento
Il mito: Orione, portatore d’acqua
Rincorse e appuntamenti tra i pianeti
Possibili intrecci: Un canto indiano, le libere associazioni, il mito e il teatro
Il mito: Il cavallo alato di Perseo
Tempi del corpo, tempi del cosmo
Possibili intrecci: E possibile un rapporto diretto con la natura?
Il mito: Le sette Pleiadi, stelle danzanti
Altre domande e domande altre
Ma torniamo alla domanda della nostra ottuagenaria: «Signorina, posso farle una domanda per favore? Le vorrei chiedere: di giorno dove vanno le stelle?»
Una persona di una certa età non è certamente ingenua. La domanda mostra umiltà e curiosità. La persona che l’ha posta l’ha formulata in maniera semplicissima, comprensibile anche a un bambino. Ma la domanda ha molte sfaccettature e possibili interpretazioni che ci aiutano a scoprire l’universo ed anche noi stessi, in un certo qual modo
Scientificamente la domanda si potrebbe reinterpretare e riformulare come:
Le stelle non scompaiono, vero? Allora perché di giorno non le vediamo più?
Come fa il Sole a coprire la luce delle stelle se sono così lontane?
Se le stelle brillano sempre, dov’è che si nascondono quando arriva il giorno?
Filosoficamente si potrebbe riscrivere anche come:
Perché vediamo solo quello che è più vicino e dimentichiamo ciò che brilla lontano?
È possibile che le stelle siano come le idee: invisibili alla luce troppo forte del mondo?
Se il cielo di giorno è vuoto solo per noi, cosa significa davvero «vedere»?
La domanda della signora ci porta anche ad altre riflessioni:
Dove andiamo noi di notte con la mente?
Dove va la nostra mente quando non è consapevole?
Cosa vediamo quando la luce della consapevolezza illumina la nostra mente?
Guardando le stelle di notte ci rendiamo conto della vastità dell’universo?
Siamo consapevoli del fatto che ne siamo parte dell’universo e che siamo fatti delle stesse molecole delle stelle?
Le scoperte sul web di questo mese
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