Lettera a quella speciale ragazza che chiede ancora
Un gesto di risposta e resistenza gentile
«[Voi insegnanti] Pretendete un albero altissimo, meraviglioso, possente, ma non vi curate un minimo di innaffiarlo, di fertilizzarlo, di assisterlo con un bastoncino quando il fusto è troppo fragile. […] Ho delle domande per tutti voi, siate sinceri almeno con voi stessi, perché insegnate? Quando ci guardate cosa vedete? Credete che essere insegnanti sia un lavoro sociale?»
La lettera della studentessa
Cari professori,
è quasi un peccato essere arrivati così in basso da trovar necessario scrivere una lettera, ma non vi vedo soluzione. Secondo la cultura giapponese ogni persona dovrebbe possedere un ikigai, cioè uno scopo nella vita, quel qualcosa che ti fa svegliare la mattina. Bene, io l’avevo trovato nello studiare, lo facevo con passione, quasi devozione. Mi svegliavo la mattina consapevole che andare a scuola, imparare, studiare fosse il mio scopo. Poi ho iniziato a comprendere, ogni giorno di più, che non ha alcuna utilità: di utile, non mi viene spiegato nulla in modo appassionante, non vengo mai ricompensata per il duro lavoro. Quando arrivo a casa e devo aprire il libro per studiare mi viene da piangere, sento la mia mente chiudersi, bloccarsi. Quando sono in classe sento solo morte, mi guardo attorno e vedo i miei compagni con gli occhi spenti o addormentati, guardo verso di voi e vedo il nulla, solo una specie di automa che sputa parole su fatti decaduti i cui valori nascosti sono stati sepolti con le loro vittime. Continuate a ripetermi che i voti non contano, che non sono ciò che fanno una persona. Per fortuna è vero, ma giudicate ore e ore di studio, ore in cui sono stata attenta in classe, pensieri e pensieri attivati solo per essere giudicati mediocrementente, e chissà poi perché, dal momento che non mi viene mai spiegata una sola volta quali siano i problemi. Quando sono in bus per arrivare a scuola, mi chiedo perché mai stia venendo, perché mai ho anche avuto la cura di mettere i libri giusti nello zaino e di fare i compiti, quando so benissimo che intanto nulla verrà ricompensato. Mi domando perché la mattina mi sono alzata per andare in un luogo dove nessuno mi vede, dove nulla mi interessa, dove si è solo di fretta e in ansia per finire un programma che nessuno sa davvero perché segue, dove mi giudicate per quindici minuti e mettete sul registro un voto immotivato su qualcosa che mi avete spiegato in modo freddo, distante e morto. Pretendete un albero altissimo, meraviglioso, possente, ma non vi curate un minimo di innaffiarlo, di fertilizzarlo, di assisterlo con un bastoncino quando il fusto è troppo fragile. Che non vi venga in mente di dire che sto solo polemizzando perché intanto ogni volta che chiedete come sto, volete sapere solo che sto bene anche se tutto va male. Non volete sapere che sto soffrendo, che vengo a scuola solo per ottenere il diploma, che non mi viene spiegato nulla di nuovo. Non volete sapere che ognuno degli alunni delle vostre classi si sente solo, disperso, in ansia, che alcuni preferirebbero morire. Esigete la sapienza, le capacità, la maturità di persone molto più mature di noi, quando siamo solo diciassettenni che non sanno nulla sul mondo. Sappiamo solo che siamo oppressi, annoiati, devastati, terrorizzati dalle vostre verifiche, dalle vostre interrogazioni, dalle vostre parole. Ho delle domande per tutti voi, siate sinceri almeno con voi stessi, perché insegnate? Quando ci guardate cosa vedete? Credete che essere insegnanti sia un lavoro sociale?"NB: un mio pensiero.
Premessa alla mia prima risposta
Cara studentessa,
proverò con tutto il cuore a rispondere, ripetutamente e in diversi modi alle tue domande.
È difficile riuscire a risponderti senza piangere e fermarsi ogni minuto e mezzo. Per scrivere una prima bozza di risposta mi farò aiutare da un «collega speciale», qualcuno che è sempre pronto ad ascoltare e darti una mano, anche a costo di sbagliare. Lui, o esso, possiede una caratteristica peculiare: sa tutti di noi.
Questo mio collega speciale di me sa proprio tutto. Ha letto infatti il mio diario di bordo e di scuola degli ultimi otto anni, e quindi mi conosce bene. Gli ho chiesto così, dopo aver letto insieme la tua lettera pubblicata on-line dal professor Enrico Galiano, di rispondere come se fossi io a risponderti, con le mie stesse parole e col mio stesso sentire.
Ecco dunque il primo modo in cui proverò, rispettosamente, a rispondere alle tue urgenti e scottanti domande.
Prima bozza risposta
Cara studentessa,
ho letto la tua lettera come si leggono certi diari nascosti: con il cuore che sobbalza, con il rispetto che si deve alle verità scomode, con la gratitudine che si riserva ai coraggiosi. Sì, sei stata coraggiosa. E se lo fossi stato io, a 17 anni, così? Non lo so.
Vedi, non tutti i professori sono come quelli che tu descrivi. Ce ne sono alcuni, pochi, forse, ma ci sono, che ogni mattina si chiedono che cosa possano fare per non tradire l’amore che hanno per i loro studenti. Ma anche loro, spesso, si sentono soli. Intrappolati dentro un sistema che misura, cataloga, depaupera, relega, inibisce, esaurisce. Un sistema che ha paura della lentezza, della poesia, del silenzio. Ha paura di sostare, osservare. Ha paura di cominciare qualcosa di nuovo a partire da voi e insieme a voi.
Tu chiedi perché insegniamo. Io, che non sono professore, ma che un giorno lo sono stato, e che forse lo sarò di nuovo, ti rispondo così:
Insegno perché un giorno un ragazzo, solo come me, mi ha sorriso. Insegno perché ho visto occhi illuminarsi davanti a un’idea spiegata bene. Insegno perché credo che la scuola, quando smette di correre dietro ai voti, possa diventare un luogo dove ci si salva. Ma questo succede solo se si ha il coraggio di disobbedire un po’. Di deviare, come dicono certi poeti.
Quando ti guardo, vedo una ragazza che ha ancora il sacro fuoco della domanda. Quella domanda che molti adulti hanno dimenticato. «A che serve tutto questo?» Dovremmo cominciare ogni lezione proprio da lì. «A che serve quello che facciamo?» E da lì ricominciare. Insieme.
Sì, essere insegnanti è un lavoro sociale. Ma solo se ci prendiamo cura delle persone prima che dei programmi. Solo se sappiamo guardarvi non come contenitori da riempire, ma come semi da annaffiare. Tu questo lo hai detto benissimo, parlando dell’albero che chiede cure. E io ti prometto che esistono educatori così. Ne ho incontrati. Li cerco ogni giorno. Ne voglio essere uno.
Tieni duro. Coltiva le tue parole. Non lasciare che muoiano. Scrivile. Gridale. Cucile addosso a chi vuoi bene. Un giorno, forse nemmeno lontano, toccherà a te far crescere altri giovani. E saprai farlo, proprio perché ora senti così forte il dolore di questa assenza.
La scuola ha bisogno di chi ha sofferto per lei. Io, te e molti altri soffriamo ogni giorno, con lacrime e sudore. La scuola ha bisogno di poeti, di ragazze come te.
Con stima, gratitudine e affetto,
Luigi Giuliani e Giorgio Frizzera (da una valle piena di vento e silenzi)
Trento, 15 maggio 2025