Guardare la scuola con il cielo negli occhi
La riflessione personale di fine anno scolastico '24-'25
Abstract
[…] La mia libertà si è costruita con le mani sulla tastiera, con gli occhi nei libri, con i piedi nei corridoi delle scuole, con il cuore nei dialoghi con i ragazzi.
[…] La scuola, per me, è un cielo. E ogni nuvola è un pensiero, un incontro, un errore, una scoperta, una svolta. Guardare la scuola con il cielo negli occhi significa riconoscere che tutto cambia, ma che ogni cambiamento può diventare occasione.

Introduzione
Le ragazze e i ragazzi mi chiamano Gigi, e se oggi provo a parlare di scuola, lo faccio con il cielo negli occhi. Non è un vezzo poetico: è il modo che ho trovato per pensare, per cercare, per educare. Ogni parte della mia storia si è intrecciata con l’educazione: nella grafica, nella vendita, nella spiritualità, nei musei e ovviamente nella scuola. È con gli occhi pieni di cielo e le mani piene di segni che oggi provo a raccontare il mio modo di vivere l’educazione.
1. Pensiero critico: il cielo come specchio del pensare
Quando guardo un ragazzo o una ragazza a scuola, non penso a una mente da riempire, ma a una coscienza che si affaccia sul mondo. Osservare, distinguere, dubitare, intrecciare relazioni: è come scrutare le nuvole, sempre in movimento. Le discipline scientifiche e umanistiche, da Lucrezio a Benford, dai tramonti di Turner alla vulcanologia, diventano occasione per pensare. Amo soprattutto ciò che queste discipline chiedono ai ragazzi: diventare ricercatori.
Il pensiero critico è questo: la capacità di attraversare nebbie, cogliere connessioni, smascherare false evidenze. Come facevo da ragazzo quando aiutavo don Giuseppe a battere al computer le sue omelie al computer, impaginando le sue parole tremolanti perché il Parkinson glielo impediva. Il pensiero critico nasce quando si sente di poter toccare qualcosa di vero, anche solo per un attimo.
Ho imparato a pensare criticamente grazie a numerosi incontri: il mio professore di italiano e latino, Natalino Madeo, che voleva farmi tradurre il De rerum natura. Odifreddi poi ne avrebbe realizzato una versione che adoro. Il Markdown, scoperto grazie a John Gruber. E poi tutti i ragazzi che ho incontrato. Loro sono stati i miei veri maestri. Hanno risvegliato in me dubbi, mi hanno messo alla prova, mi hanno fatto vedere le mie zone d’ombra. Anche solo con una domanda.
Volontà forte e progetto: il cielo come orizzonte del volere
Amo accompagnare i ragazzi nel momento in cui iniziano a immaginare un progetto. Non solo scolastico, ma di vita. Una traiettoria. Un cammino.
Nel suo discorso What Is Your Life’s Blueprint?, Martin Luther King Jr. disse:
“If you can’t be a pine on the top of the hill, be a shrub in the valley — but be the best little shrub on the side of the hill. […] be the best of whatever you are.”
“Se non puoi essere un pino in cima alla collina, sii un arbusto nella valle […] sii il migliore in ciò che sei.”
Queste parole mi guidano. Le ho seguite quando ho deciso di cambiare vita, trasferirmi a Trento, ricominciare da zero, entrare nella scuola Artigianelli, riuscire a passare una difficile selezione per un corso, essere chiamato da un vecchio amico a fare il docente esterno, e tornare a studiare mentre lavoravo part time.
Ho portato in aula tutte le esperienze che avevo maturato nella grafica, nella vendita, nella formazione, nel servizio civile, nella copisteria di famiglia, nel museo, nei percorsi informali. Ma anche nel dolore, nella malattia, nell’ascolto dei ragazzi. Ho portato tutto me stesso.
La volontà forte non è solo perseveranza. È servizio. Come quando, insieme all’amico e collega Marco, ho guidato ragazzi della nostra classe nel Problem Solving Lab. Non ero professore, educatore o psicologo. Ero una persona. Una persona che aveva vissuto. E per questo ero credibile.
Ogni progetto ha avuto bisogno di volontà: l’installazione multimediale per il museo della Sabina, la tesi sul Design Thinking nella didattica, il modulo formativo di matematica applicata denominato “Ingegno”, i compiti autentici, la progettazione delle guide museali basate su domande, il lavoro sui mazzi di carte di Maria Lai, i moduli didattici scritti a quattro mani con l’amico Giorgio Frizzera.
Libertà: il cielo come destino interiore
In pedagogia si potrebbe parlare di libertà come scopo ultimo dell’educazione. Non concessione, ma conquista. Come dice Felini: educare è migliorare l’altro. Significa far fiorire ciò che è autentico, renderlo operante nel mondo.
La mia libertà si è costruita con le mani sulla tastiera, con gli occhi nei libri, con i piedi nei corridoi delle scuole, con il cuore nei dialoghi con i ragazzi. È passata per l’autoeducazione, lo scoutismo, il catechismo, la vendita come ascolto, la guida come maieutica.
La libertà è essere presenti. Come insegna Thich Nhat Hanh. Respirare e sentire di essere vivi. Lavorare con i media può servire anche a questo: se li usiamo con consapevolezza, se diventano strumenti di comunità, di ascolto, di attenzione.
Esercitiamo libertà quando scegliamo come raccontarci, come ascoltare, come rispondere. Anche una tesina impaginata bene può essere un atto di libertà. Anche aiutare un ragazzo a preparare una slide. Anche dire «Non ce la faccio, ma ci provo lo stesso.»
Conclusione
Ho avuto molti maestri: Madeo, don Giuseppe, il professor Francesco Pitocco all’università, Alberto Manzi, Célestin Freinet, Thich Nhat Hanh, Frank Bettger, i ragazzi, le ragazze, gli strumenti software, le idee. E ognuno di loro mi ha lasciato qualcosa. Mi porto sul polso le firme dei ragazzi che ho accompagnato. Non ci sono più, come ci insegna il buddismo. Sono diventati adulti. Ma ci sono ancora, ogni volta che racconto questa storia.
La scuola, per me, è un cielo. E ogni nuvola è un pensiero, un incontro, un errore, una scoperta, una svolta. Guardare la scuola con il cielo negli occhi significa riconoscere che tutto cambia, ma che ogni cambiamento può diventare occasione.