Clinica di una lezione andata storta
Quando il dispositivo educativo si incrina e si apre
“L’accadere educativo è da studiare”, diceva Massa, ma quando sei in sede di progettazione, con tutta la creatività pedagogica che hai, puoi solo allestire, istituire, creare un contesto. Ma che avvenga l’incontro, che avvenga l’evento, che sia significativo, non lo puoi dare per garantito. E meno male! Non per tutti poi. Perché avessimo una scienza che sa fare questo sarebbe un po’ pericoloso.
— Jole Orsenigo, dall’intervento al KUM! Festival 2024, disponibile suu Youtube, intitolato “Riccardo Massa. Il discorso interdetto”
Ci sono lezioni che si preparano con cura, altre che si conducono con istinto, altre ancora che, pur seguendo un disegno, si trasformano in qualcosa di diverso. Alcune, infine, si spezzano — e proprio lì, nella frattura, accade qualcosa di educativo.
Quella che racconto qui è una di queste ultime. Una lezione che si è incrinata, ma nella quale — proprio grazie a questa rottura — si è rivelato, in filigrana, il dispositivo educativo nella sua complessità, come lo ha pensato Riccardo Massa: non un insieme di tecniche, ma una struttura composta da materiali, corpi, simboli, attese, silenzi, emozioni e regole — visibili e invisibili.
La prima soglia: la narrazione
La mattinata è cominciata con un’attività immaginativa e concreta: uno zaino pieno di oggetti evocativi, ciascuno associato a un mestiere. Gli studenti sono stati coinvolti: hanno osservato, indagato, intuito, interpretato.
Il dispositivo funzionava: spazio, oggetti, corpi, parole e gesti producevano insieme un’esperienza formativa.
Poi è arrivata una seconda attività, un gioco in cui i ragazzi dovevano prendere posizione rispetto a un tema (l’ambiente) e argomentare le proprie scelte. Anche in questo caso lo spostamento fisico nello spazio aveva un valore: incarnava le opinioni, metteva in gioco la postura, la distanza, la scelta. Tuttavia, l’energia andava calando. I corpi si muovevano meno, la parola faticava a diventare discorso. Il dispositivo stava perdendo tenuta.
Infine, al momento di proporre una terza attività, un role play di vendita, ci si è accorti che non era più possibile. I ragazzi erano distratti, il contesto non più fertile. Ma proprio in quel momento, mentre la struttura didattica sembrava franare, si è aperta una breccia.
La seconda soglia: la testimonianza
Il docente ha preso la parola e ha chiesto attenzione. Non per tornare alla lezione, ma per mostrare qualcosa di sé. Un tatuaggio, inciso sul polso, portato con sé come segno — e, in quel momento, come segno che si fa parola.
Il tatuaggio non era parte del piano. Era parte del sé. E da lì è nata una narrazione profonda, personale, esposta: un’esperienza di malattia, di resistenza, di amore educativo. Una testimonianza.
Gli studenti si sono fatti più silenziosi. Due di loro si sono commosse, visibilmente toccate. Senza che venisse chiesto, il dispositivo si era riattivato: ma non più quello progettato, bensì uno nuovo, imprevedibile, emerso dalle relazioni, dai corpi, dagli affetti.
La terza soglia: la clinica della formazione
La clinica della formazione, come la intende Riccardo Massa, è un approccio che osserva le esperienze educative quando non seguono il piano. Quando la lezione devia, fallisce, si incrina — e proprio lì rivela qualcosa di più profondo: non l’efficacia, ma il senso.
In questa scena formativa, possiamo rileggere i livelli del dispositivo descritti da Massa:
Il livello metodologico (le attività progettate) ha ceduto il passo.
Il livello strutturale (tempi, spazi, posture) si è modificato.
Il livello simbolico si è intensificato: l’oggetto–tatuaggio è diventato linguaggio, memoria, affetto.
Il livello esistenziale ha fatto irruzione nella scena didattica.
Il livello ideologico (cosa conta davvero a scuola?) è stato interrogato in profondità.
Tutti questi elementi — umani e non umani, intenzionali e inattesi — hanno composto un nuovo dispositivo educativo, emergente, fragile, ma autentico.
La quarta soglia: la cura
Quello che resta, alla fine di una lezione così, non è il contenuto trasmesso, ma l’esperienza vissuta: l’essersi visti, l’essersi parlati, l’aver portato qualcosa di vero nel tempo scolastico.
La cura, in questa prospettiva, non è un gesto dolce, ma un atto di esposizione: un mettersi in gioco che può trasformare l’altro. Non esiste apprendimento se non passa per un movimento affettivo, anche minimo, che ci faccia entrare in relazione con chi insegna e con ciò che ci attraversa.
Epilogo
La lezione è andata “storta”, sì. Ma se la osserviamo con lo sguardo della clinica, possiamo dire che si è piegata per aprirsi.
E in questa apertura, la formazione ha avuto luogo — non nel ruolo, ma nella relazione. Non nel successo del piano, ma nella fragilità condivisa.
Concludo con una frase che rivolgo all’amico e collega Luigi, che concede spazio anche ai miei pezzi e alle mie riflessioni qui su “La scuola immaginata”:
Quando un dispositivo si spezza, può nascere uno spazio educativo nuovo.
E questa è, forse, la forma più alta di cura che la scuola possa offrire.